Sanitalk #9. PNRR e DM77: i dubbi degli stakeholder, anche se permane un certo ottimismo

Le scadenze per la realizzazione del Pnrr si avvicinano, ma il progetto partito con il Governo Draghi poco convince il nuovo Esecutivo guidato da Giorgia Meloni. Il ministro della Salute, Orazio Schillaci, e il sottosegretario alla Salute, Marcello Gemmato, hanno espresso perplessità. La verità, però, è che al di là della soddisfazione per la forte iniezione di risorse destinate in un solo colpo al nostro Paese, il progetto non ha mai convinto pienamente molti professionisti della sanità, operatori e dirigenti. A preoccupare è l’impianto, che appare monco nella sua parte sostanziale: il numero, la tipologia e le dinamiche di relazione tra i professionisti che dovranno animare le nuove strutture sul territorio previste dal Pnrr. Esiste poi un problema di risorse: quelle in arrivo dall’Ue sono nei fatti un prestito e una volta a regime il sistema avrà degli costi (alti) che il Paese dovrà coprire ricorrendo alle proprie casse.

Il Pnrr, allora, ha più senso? è tutto perduto? Sono i quesiti posti agli ospiti dell’ultima puntata di SaniTalk, il programma creato da Sics, condotto da Corrado De Rossi Re e sostenuto incondizionatamente da Alfasigma, che ha visto protagonisti Pier Luigi Bartoletti, vice segretario nazionale Fimmg; Eva Colombo, vice presidente Fiaso e direttore generale della Asl di Vercelli; Francesco Saverio Mennini, presidente Sihta; Arturo Cavaliere, presidente Sito; Gianfranco Finzi, presidente Anmdo; Gennaro Volpe, presidente Card.

“La fretta non è mai buona consigliera”, ha esordito Pier Luigi Bartoletti riferendosi al fatto che il Pnrr sia stato concepito “nel corso dell’emergenza Covid e in poco tempo, sotto il pressing delle scadenze per richiedere quello che nei fatti è solo un prestito e non risorse a pioggia”.

Il vice segretario nazionale Fimmg evidenzia, poi, come, nella Missione 6 tutto ruoti intorno “ai contenitori” (case di comunità, ospedali di comunità..) “ma del contenuto non si fa menzione”. Citando i dati di uno studio Nomisna che ha stimato in 8 miliardi i costi di gestione delle case di comunità a regime, Bartoletti ha poi evidenziato come “la coperta sia corta”. Il progetto, ha spiegato, “è finanziato dal Pnnr per 3 miliardi. Dove recuperare gli altri 4 miliardi e oltre? C’è chi ipotizza una gestione mista pubblico-privato. È evidente che questo aumenta ancora di più le nostre perplessità sulla direzione che si sta prendendo”.

Per il vice presidente FImmg manca, inoltre, un modello organizzativo di riferimento chiaro. In questo senso, le perplessità vanno oltre il Pnrr, “basti pensare che il DM 70 e il DM 77 sono due tasselli su cui realizzare l’integrazione ospedale territorio ma di fatto non c’è mai stato un confronto sul quadro di insieme”.

Come andrà a finire? “Come con i banchi a rotelle”, risponde Bartoletti usando un riferimento ben noto perché al centro di precedenti polemiche nei confronti dell’ex ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina. Questo non vuole dire che non ci sia modo di migliorare. “Il punto è capire cosa vogliamo offrire come servizio pubblico, in modo omogeneo, in tutta Italia”. Partendo, secondo Bartoletti, da “quello che ha funzionato bene finora, implementandolo ma facendo bene i conti con le risorse a disposizione, perché è inutile fare progetti se poi non ci sono medici e infermieri, non c’è la cultura e non c’è la formazione”. In definitiva, “immettere soluzioni e novità che siano coerenti con i sistema che abbiamo. Senza idee mirabolanti che non possono stare in piedi o portare risultati per il cittadino”.

Parole condivisibili, per Eva Colombo. “Se oggi come oggi facessimo un giro tra i nostri presidi territoriali, ci accorgeremmo che in molti casi si tratta di strutture vecchie e fatiscenti, che da decenni vedono un investito in manutenzione e investimenti sul personale”. Per Colombo, questo è un patrimonio che va riqualificato e che può dare risultati.

Allo stesso tempo, secondo la vice presidente Fiasco occorre, però, riorganizzare e razionalizzare il sistema, che deve fare i conti con diverse criticità, a partire dalla carenza di personale. “Credo che l’aspettativa, quando si è iniziato a parlare di case di comunità, fosse quella di recuperare il personale dagli ospedali. In questo ragionamento è saltato tuttavia un passaggio fondamentale, che è quello della razionalizzazione prevista già da tempo nel decreto ministeriale 70 del 2015, che prevedeva la ripartizione degli ospedali in strutture di base, di primo e di secondo livello. Questo forse avrebbe portato a una migliore distribuzione del personale e alla possibilità di spostare alcune unità in nuovi servizi. Il fatto è che il DM 70 è rimasto praticamente sulla carta”.

Per la vice presidente della Fiaso, comunque, non tutto è perduto, anche se la sfida è difficile. “La casa di comunità potrebbe diventare una sorta di pronto soccorso, aperto h24, con la presenza di 4 o 5 medici, sollevati dalla burocrazia grazie alla presenza di personale di segreteria. Insieme all’infermiere di famiglia collocato sul territorio, questo gruppo di medici sarebbe anche in grado di collegarsi, attraverso degli strumenti di telemedicina, al domicilio del paziente, realizzando quella prossimità di cui tanto si parla”.

Telemedicina e Cot, le Centrali operative territoriali, sono per la vice presidente Fiaso le due armi fondamentali su cui poter puntare. Certo, ha fatto notare Colombo, “un modello organizzativo non esiste e tutto viene lasciato un po’ alla libera iniziativa e all’inventiva delle Direzioni Generali, che pone anche un problema di omogeneità e di responsabilità. La sensazione – ha concluso la vicepresidente Fiaso – è che le case della comunità le faremo funzionare, ma probabilmente questo avverrà attraverso le esternalizzazioni, aumentando quel fenomeno che già oggi esiste e porta a costi esorbitanti”.

“Siamo sicuramente lieti del cambiamento culturale che c’è stato in Italia rispetto alla volontà di investire sul territorio. Finalmente si parla di Distretto”, ha esordito Gennaro Volpe, secondo il quale restano però dei nodi da sciogliere, “a partire da uno scoperto di circa il 30% dei costi, che forse dovrebbe portare a un ripensamento sul numero di case di comunità e di ospedali di comunità da realizzare”. C’è poi la questione delle risorse umane: “Occorre assolutamente rinforzare gli organici” e “riorganizzare il personale presente sul territorio, mettendolo in contatto con le nuove strutture, che dovranno essere inserite all’interno di un distretto”. Quello che immagina il presidente della Card è “un Distretto forte, riorganizzato secondo una valenza dipartimentale”.

Anche Volpe ha sottolineato la necessità di una organizzazione chiara e omogenea su tutto il territorio nazionale. Per il presidente Card occorre infine puntare sulla informatizzazione: “Avere una cartella condivisa dallo studio di medicina generale all’interno della casa di comunità con i colleghi delle ex Usca o con la guardia medica permette di avere una fotografia chiara dei servizi erogati sul territorio. E’ una delle chiavi della riforma, per consentire la presa in carico appropriata del paziente dal pronto soccorso alle case di comunità, fino al domicilio, all’interno del distretto”.

“Noi crediamo fortemente alla necessità di rimodellare l’organizzazione, cogliendo le nuove opportunità del Pnrr, eadattandole alla Digital Transformation, al fine di ottimizzare la continuità ospedale territorio”, ha quindi dichiarato Arturo Cavaliere, che sulla missione 6 del Pnrr contesta anzitutto “la divisione degli investimenti non coerente con le reali necessità del territorio”, con “7 miliardi dedicati alla costruzione degli ospedali di comunità, delle case, di comunità e delle Cot”, che tuttavia consentiranno una copertura parziale del territorio, essendo prevista una casa di comunica ogni 40-50.000 abitanti e una Cot ogni 100.000”.

Anche la Sifo è convinta che la Cot sia “la vera cabina di regia all’interno della quale avvengono quelle transizioni di cura tra l’ospedale e il territorio che gli studi scientifici dimostrano essere l’area più critica”.

Il presidente Cavaliere ha quindi espresso l’impegno della Sifo per realizzare progetti in grado di contrastare la mancata aderenza delle terapie farmacologiche sul territorio, attraverso un lavoro che vede il farmacista collaborare all’interno di un team multidisciplinare. Per Cavaliere, e la Sifo lo ha già chiesto in occasione del dibattito sul DM 77, il farmacista non può quindi restare una figura facoltativa, ma deve essere un professionista “obbligatoriamente presente all’interno delle Centrali operative aziendali e territoriali, essendo da sempre un elemento di congiunzione tra le necessità dei centri di produzione aziendale, la direzione strategica, le Regioni, con un ruolo centrale, quindi, per il finanziamento sanitario nazionale”.

Il dato certo, per Francesco Saverio Mennini, è che “c’è tutta una serie di attività da mettere in piedi. Alcune andranno in porto perché ci sono le tempistiche adeguate, su altre sarà necessaria un’attenzione particolare”. Tra queste ultime, secondo il presidente Sihta, c’è il capitolo delle tecnologie. “Innanzitutto occorre accelerare perché oltre all’acquisto, quando si parla di tecnologie, bisogna considerare l’implementazione delle stesse e del personale per farle funzionare”.

Per Mennini, comunque, non si può nascondere che il Pnrr ha sicuramente impresso una spinta su alcune questioni, come quelle tecnologiche. Positivo anche il fatto che si sia preceduto a una revisione delle strategie di investimento del Pnrr una volta approvato, in quanto ritenute non può adeguate. “È cambiata l’elencazione delle tecnologie che andavano acquistate, è cambiata la strategia perché si è compreso che per investire correttamente sul settore sanitario bisognava prima realizzare una mappatura dell’esistente. Si è cambiato tutto quello che era necessario per consentire di intervenire in maniera precisa e puntuale”.

Ancora oggi, per il presidente della Sihta, “c’è la possibilità di cambiare in corsa alcune cose e correggere alcune delle anomalie scaturite dalla fretta con la quale era stato implementato l’intero impianto del Pnrr”. La questione di fondo tuttavia resta aperta ed è quella del mantenimento di tutto il sistema: “Serviranno risorse aggiuntive che attualmente è difficile immaginare”.

A chiudere gli interventi Gianfranco Finzi, che parla di “una riforma a metà” evidenziando ancora come “il decreto 77 doveva essere parallelo o almeno subito seguito dal cosiddetto 70 bis 71 e così non è stato”. In pratica, per Finzi, “è stata fatto un progetto interessantissimo per il territorio, ma senza la parte inerente gli standard ospedalieri rimane una riforma dimezzata che non consente di capire esattamente come sarà possibile sviluppare il rapporto ospedale territorio”.

Quanto al problema della carenza di personale e al rischio di avere nuove strutture vuole, per il presidente Anmdo c’è “una sola cosa da fare: ridisegnare il percorso di formazione dei medici e il finanziamento della sanità, investendo per garantire la tenuta del sistema”.

Del resto, secondo Finzi, “le soluzioni che consentono al Governo di rendere disponibili queste maggiori risorse esistono: perché non azzeriamo l’Iva del 22% sul costo dell’energia agli ospedali, per esempio?”.

Per il presidente Anmdo servono “nuove idee” che vadano però ad incidere sui problemi prioritari, come “la carenza di medici, specialmente nei pronto soccorsi”. La mancanza di “vocazioni”, secondo il presidente Anmdo, soprattutto per alcune specialità, “creerà criticità sempre più acute”. “Si rischia il collasso degli ospedali e il collasso della sanità pubblica. Servono nuove idee – ha ribadito Finzi – perché senza un’adeguata risposta, ci saranno conseguenze per il Ssn e quindi per i cittadini”.

Tra le proposte avanzate da Finzi a Sanitalk anche quella di accorciare gli anni di formazione universitaria dei medici, perché “oggi il percorso è troppo lungo e tenere questi professionisti in stand-by per qualcosa come 10 anni è impensabile”. Per il presidente dell’Anmdo si potrebbe considerare, anzitutto, di “essere più severi nella selezione durante gli anni di corso di Laurea, il che consentirebbe anche di abolire il numero chiuso”. E poi di procedere a una riforma del percorso di specializzazione perché “non si capisce il motivo in base al quale, dopo 6 anni di studi, un medico non possa esercitare o non possa acquisire la specializzazione mentre esercita, come ora avviene per l’ultimo biennio”.

Per Finzi andrebbe inoltre considerato un maggiore coinvolgimento dei medici di famiglia in una serie di attività diagnostiche che oggi vengono eseguite in ospedale. Mentre respinge l’idea di un forte uso della telemedicina: “Va benissimo l’informatizzazione, che però deve essere mirata alla parte documentale e al consulto. Ma il rapporto medico-paziente faccia a faccia resta fondamentale per l’anamnesi”.

 

Lucia Conti

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