La bozza del Piano che il Governo dovrà presentare tra meno di un mese non convince gli esperti che hanno partecipato al terzo Sanitalk.
Entro il 30 aprile l’Italia dovrà consegnare all’Europa il proprio piano strategico per poter accedere al Recovery fund, un programma da 750 miliardi di euro per rispondere ai danni economici e sociali della pandemia.
Al nostro Paese spetteranno circa 209 miliardi, di cui poco più di 20 saranno dedicati alla sanità e in particolare a questioni come l’assistenza di prossimità, la telemedicina, la digitalizzazione e la ricerca.
Al di là degli slogan, però, di che cosa ha bisogno davvero il nostro Servizio sanitario per ripartire e continuare a esistere? Ne abbiamo parlato con alcuni esperti durante il terzo Sanitalk, l’appuntamento mensile di SaniTask, l’iniziativa editoriale di Sics sostenuta incondizionatamente da Alfasigma, che approfondisce i temi più importanti che interessano il management sanitario a tutti i livelli.
Le domande aperte
Secondo gli esperti intervenuti, la bozza di piano sarebbe troppo generica, senza obiettivi precisi da raggiungere. “Se lo scopo è rilanciare il Ssn massimizzando il value for money, cioè il ritorno in termini di salute delle risorse investite, serve una riprogrammazione sanitaria e in generale riforme importanti – ha esordito Nino Cartabellotta, presidente di Fondazione Gimbe – Al di là delle dichiarazioni di intenti, infatti, non è chiaro che impatto avrà il Piano sulla spesa corrente, quali saranno i criteri di riparto delle risorse tra le Regioni, come funzionerà il monitoraggio…”.
Il documento contiene molte delle criticità e delle carenze che affliggono il nostro sistema sanitario, ma proprio per questo, a detta di Cartabellotta, “le risorse da dedicare a ciascuna voce dive tano esigue”.
Sulla stessa lunghezza d’onda anche Francesco Saverio Mennini, presidente della Sihta (Società italiana di Health technology assessment): “Secondo me mancano alcune specificazioni, come la garanzia di un acceso precoce alle tecnologie e un ammodernamento tecnologico che sia specifico e mirato. Per esempio: come si intende organizzare l’assistenza territoriale e domiciliare? Secondo me si dovrebbe partire dall’analisi della mobilità sanitaria, vedendo quali sono le Regioni con la maggiore mobilità passiva e verificando se questa è causa di una carenza tecnologica dentro le strutture ospedaliere. A questo punto si può capire che tipo di intervento effettuare”. Accanto a questo, secondo il presidente Sihta occorrerebbe investire sulla prevenzione, che nel medio e lungo periodo riduce i costi a carico del Ssn.
Infine, “sarebbe buona cosa superare l’ottica dei silos e investire per garantire un ritorno anche nelle voci dell’assistenza sociale e previdenziale. Per farlo, è necessario avere banche dati che dialoghino tra di loro non solo dentro il sistema sanitario”.
L’impressione diffusa è che il Piano sia composto da una serie di contenitori che vanno riempiti di contenuto. Il rischio, altrimenti, è quello di sperperare una somma che probabilmente la sanità italiana non rivedrà mai più (e che dovrà restituire per i due terzi). “Dobbiamo capire come spendere – ha affermato Francesco Ripa di Meana, presidente Fiaso – I 20 miliardi attiveranno a loro volta altre risorse. Quello che dobbiamo fare è avere un’operatività veloce, a partire dalle aziende sanitarie. Poi, ci dobbiamo porre outcome che siano realistici da raggiungere nei prossimi 5 anni”. Sulla necessità di essere più snelli ha concordato anche Luciano Pletti, vicepresidente della Card: “Serve tempestività, lo abbiamo visto anche durante la pandemia – ha ricordato – Dobbiamo investire su una governance in hrado di programmare e mettere in campo in poco tempo gli interventi. Inoltre, servono più risorse per i distretti. Non solo di tipo economico, ma anche di personale. Per la gestione della presa in carico personalizzata abbiamo bisogno della centrale operativa, uno snodo nevralgico che si possa occupare della regia e della costruzione dei percorsi di presa in carico”.
Luca Caterino di Federsanità Anci Toscana ha acceso i riflettori sul rapporto tra sistema sanitario, sociale e assistenziale: “Abbiamo bisogno di un’integrazione reale tra questi aspetti – ha esordito – Dobbiamo lavorare a piani territoriali che consentano un’offerta assistenziale adeguata alla domanda che si è sviluppata negli anni. Per farlo dovremo aprire anche un dibattito sulle cabine di regia territoriali, quanto mai centrali”.
Gianfranco Finzi, presidente dell’Amdo ha invitato a non fare i conti senza l’oste: “Dobbiamo ricordarci che abbiamo a che fare con un virus e non siamo in grado di prevedere come saranno i prossimi anni. Per questo dobbiamo concentrarci su uno sviluppo organizzativo che sia all’altezza delle sfide del domani: abbiamo una carenza organizzativa e strutturale di personale medico e infermieristico da colmare. Per fare qualunque cosa, abbiamo bisogno prima di tutto del capitale umano”.
Il presidente di Sifo Arturo Cavaliere ha detto che la società scientifica sta lavorando allo sviluppo di un nuovo modello nell’ambito della continuità assistenziale, in particolare quella farmaceutica. “L’obiettivo è rendere etico e accessibile l’accesso al farmaco – ha spiegato – Abbiamo alcuni progetti pilota di home delivery che però non può prescindere dalle centrali operative di cronicità”.
Quali proposte
Tutti gli intervenuti hanno concordato sulla necessità di sfruttare le risorse in arrivo per mettere in campo riforme sanitarie coraggiose, che permettano di risolvere problemi che esistono da anni e che durante la pandemia sono emersi in modo ancora più marcato.
Da Cartabellotta sono arrivate due proposte operative: rilanciare il finanziamento pubblico della sanità in modo stabile e coerente con le proposte messe in campo e con gli obiettivi del Piano e lavorare per affrontare e risolvere le disuguaglianze regionali, in un’ottica di integrazione tra sanitario e sociale.
Caterino ha sottolineato la necessità di lavorare su e con la medicina del territorio, investendo in modo particolare sulla formazione. Ha poi sottolineato la necessità di “una medicina itinerante, più vicina ai cittadini che hanno difficoltà di spostamento e che possa alleggerire il carico sulle strutture sanitarie”. D’accordo sulla necessità di una riforma delle cure primarie anche Pletti, che ha evidenziato la necessità di “gruppi di medici con cui l’azienda ha un rapporto di collaborazione stretta, a prescindere dal rapporto contrattuale”.
Ripa di Meana ha sintetizzato in tre punti le necessità di finanziamento: “grandi infrastrutture, progetti di innovazione locale e un miglioramento organizzativo e professionale che metta al centro il management della sanità. In particolare, serve un mix di interventi che nascano dal basso, che abbiano obiettivi ben definiti e che contribuiscano a superare il gap tra le Regioni”.
Digitalizzazione e ricerca al centro per Cavaliere e Finzi, che hanno evidenziato anche il ruolo importante della formazione e la necessità di una cartella clinica integrata, che sia a disposizione di tutti coloro che si occupano dell’assistenza alla persona.
Mennini ha concluso con la richiesta di “partire dal fabbisogno reale per ogni genere di valutazione e proposta. Dobbiamo riuscire a stabilire correttamente quali sono le risorse necessarie per garantire rinascita del Ssn e riuscire a mantenerlo nel tempo. Dalla prossima Finanziaria vorrei vedere una crescita del fondo sanitario che ci permetta di stare al passo con gli altri Paesi europei e far sì che i cittadini possano accedere in modo più semplice alla sanità, che deve essere vista come un investimento e non un costo”.
M.P.